martedì 10 aprile 2007

Ancorati nella bufera

10 Aprile 2007




Sono stanco di sembrare un depresso. Il mio umore, non è dei migliori , ma vi assicuro che non soffro di depressione alcuna. Questo per tranquillizzare chi si preoccupa per me. E’ un piccolo preambolo al disegno che sto per illustrarvi, rappresenta per quasi tutti un soggetto che non piace, una forma d’arte che si vorrebbe tenere lontana, disegni che alcune volte non sembrano graditi ma che alla fine fanno parte del nostro percorso di vita. E’ un mercato florido, un mercato normale per gli addetti, una fonte di reddito per i marmisti. Parlo delle tombe! Come già illustratovi precedentemente, ne ho disegnata una per mia madre, una altrettanto bella per mio padre e due, su richiesta di un collega il cui padre era deceduto proprio in quel periodo. Io sarei più propenso a chiamarle in altro modo: monumenti funebri. Essi infatti servono a perpetrare il ricordo dei cari nella memoria dei viventi.
Nel caso specifico direi per chi non amasse troppo l’argomento, non che a me piaccia, di vedere la cosa esclusivamente dal punto di vista grafico, di valutare l’idea, le forme , le simbologie, l’originalità. Chiedo quindi uno spirito critico, in cui si esprimano emozioni esclusivamente legate all’estetica.




Il papà di questo insegnante, calabrese o siciliano, non ricordo bene, nella sua esistenza ha lavorato come pescatore, uomo avvezzo ad uscire in mare aperto, in condizioni anche di pericolo, per ore o per giorni. Un rappresentante della gente del sud, contadini pescatori, che alternavano le attività in base alle esigenze o alle caratteristiche del tempo. Mi piace pensare a tempi lontani quando ancora ragazzo uscivo di notte con loro, sulle barche di legno tinte d’azzurro e di bianco, sospinte dalla forza di un piccolo motore fuoribordo sbuffettante. Si usciva alle prime ore del mattino oppure di notte con le lampare, gigantesche lampade a gas, che avevano il compito di attirare i pesci. Uomini duri, rudi, con il volto perennemente abbronzato, i calzoni ripiegati sulle ginocchia e l’eterna camicia bianca costantemente aperta sul petto. Anziani dai capelli brizzolati e giovani dai capelli ricci remavano assieme all’occorrenza, mentre altri tiravano le reti, nelle quali il più delle volte, restavano impigliate ogni sorta di cose fuorché il pesce. Il mare sotto il sole accecava, rifletteva quei raggi che venivano accettati sempre con la benedizione di Dio nonostante il loro calore bruciasse la pelle del viso e screpolasse le labbra già arse dalla salsedine. Mentre le corde tagliavano a sangue le mani e le onde del mare scuotevano lo scafo, i loro occhi scuri scrutavano attentamente il mare in cerca di segni, d’indizi, dell’avvenuto miracolo del giorno. Alcune volte sul fondo della barca a’ rezza ricolma, vomitava ogni sorta d’animale marino. Dai capponi ai saraghi, dalle gallinelle alle orate dai scorfani orribili e nel contempo affascinanti, a cefalopodi agonizzanti, da argentee aguglie a grosse sarde dal dorso azzurro più del mare e poi gronghi, giganteschi serpenti di mare, murene, granchi enormi .
Allora era festa il sorriso tornava sui loro volti corrucciati e sfatti dalla fatica. La giornata, in quei casi, finiva presto e pronto era il ritorno verso le coste che ancora si intravedevano in lontananza. Ma la costa non era in verità così vicina come sembrava, parecchie miglia separavano la piccola barca dalle loro famiglie. Il tempo impiegato per il ritorno chissà perché era sempre maggiore di quello d’andata, nessuno cantava come alla partenza, ognuno metodicamente svolgeva il proprio compito nel più completo silenzio. Lo sguardo era fisso e rivolto a quel lembo di terra grigiastro, mentre il sole incominciava a calare. Da lontano già si intravedevano le prime luci delle case che si accendevano, le onde sembrava volessero cantare una melodia di benvenuto per loro. Le creste spumeggianti si spezzavano lungo il dorso dello scafo. I pescatori erano assorti nei loro pensieri. Chissà mi chiedevo a cosa stessero pensando. Antonio il più giovane, sicuramente alla bella Maddalena che aveva baciato proprio quella mattina quando la stessa era sfuggita con uno stratagemma alla costante attenzione della madre che non vedeva di buon occhio la loro relazione. Sperava per la figlia un avvenire migliore, una vita meno grama della sua, una vita serena, senza il timore di non veder più tornare il proprio uomo uscito a pescare e colto da un’improvvisa tempesta. Una tempesta della natura perlopiù sconfitta dall’esperienza e dalla tenacia, supportate dalla disperazione e dal dovere. Il dovere di un padre che ha delle donne che lo attendono, la disperazione di un essere che non vuole finire i suoi giorni lontano da un letto di morte. “Che il mio corpo possa almeno rinfrescarsi con le lacrime delle mie donne vestite di nero per lutto!”, “che il mio corpo possa essere sepolto nella sabbia delle bellissime spiagge su cui a piedi scalzi ho corso seminudo da bambino”, che la mia barca o parte di essa sia sempre accanto a me affinché lesto possa tornare dopo aver navigato nel mare dell’ignoto presso la mia dimora, un domani” che animali marini, flora e fauna, di un mondo sommerso, siano rappresentati in eterno nella mia tomba, su cui solida si erga l’ancora che ancora tiene legato il mio spirito ai fondali di questo immenso oceano chiamato carità cristiana. Ecco Giuseppe, Salvatore oppure Carmelo, non so chi tu sia quale sia il tuo nome. Il nome per me è solo un piccolo insignificante particolare, la grandezza della tua immagine è quella che io vorrei trasmettere per sempre ai posteri, l’amore che hai dimostrato loro attraverso il tuo lavoro e la fatica quotidiana, le sofferenze i patimenti, le tue risate ed i suoni di secchi comandi usciti direttamente dal cuore.Grazie per sempre uomini del mare, mi avete insegnato una cosa; che l’amore sofferto è sempre il più grande. A te dedico questo ricordo di pietra e altro come da te desiderato, anche se alla fine rimasti incompiuti. Monumenti eterni ai costruttori di un benessere umano che sta affondando negli abissi dell’ indifferenza e dell’illusione.





Che si accenda per te l’ultima lampara.


Italo Sùris
















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