martedì 31 luglio 2007

La perla d'oriente IV^









31 luglio2007


L’harem 4°

Provava un piacere sadico nel suo lavoro Abdullah- Al Hazar, questo il nome completo. Cavava gli occhi delle sue vittime strappandole personalmente con le sue stesse mani, pur avendo a disposizione come aiutanti due corpulenti e silenziosi mori. Lo faceva dopo aver bloccato il viso dello sciagurato fra le sue possenti e gigantesche mani e premendo i pollici nelle orbite, fintanto che i bulbi oculari fuoriuscivano schizzando dal cranio, mentre fiotti di sangue fluivano dalle cavità rimaste vuote. Era la tortura prediletta di Abdullah, sembrava che con quest’atto così crudele, volesse espellere con ira dal suo corpo, tutta la rabbia e la frustrazione accumulate sul campo di battaglia vedendo morire, sotto i colpi inferti dai nemici infedeli, i suoi soldati migliori, fratelli musulmani. Abdullah-Al–Hazar come i suoi due aiutanti, era di origine nomade. Un berbero rimasto orfano allorché gli arabi, provenienti da Medina nella penisola Araba, occuparono tutta la Mauritania, la Tunisia, il Marocco oltre i paesi a nord della stessa Arabia; lo Yemen, l’Iraq, l’Iran. Probabilmente in quegli attimi di furia omicida, tornavano a lui in mente attimi terribili del suo passato. Come quando dei cavalieri urlanti, cavalcando velocemente al galoppo di focosi cavalli neri, si scagliarono con furia selvaggia sui componenti del suo villaggio. Agglomerato di abitazioni, composto da enormi tende scure drizzate a gruppi distanti le une dalle altre, su enormi pali, nelle immediate vicinanze di un’oasi. La stessa era costituita da alte palme di datteri e da arbusti che crescevano disordinatamente attorno ad una sorgente naturale. Più una pozzanghera di acqua scura e apparentemente imbevibile, che uno zampillo di liquido limpido, fresco ed ed invitante. Ma per gli occupanti del villaggio e per gli animali in loro possesso, quel pozzo era tutto, significava la vita. Le donne raccoglievano l’acqua in grossi otri di pelle di montone e con quella raccolta in recipienti di legno, lavavano gli indumenti servendosi anche dei residui della cenere dei fuochi accesi di notte. Piccoli falò alimentati con la poca legna disponibile, da uomini vestiti di lunghe tuniche scure, raccolti attorno al fuoco per vegliare sul villaggio di tela e di pali, raccontandosi e tramandandosi le gesta eroiche dei loro antenati. E con la preziosa acqua della sorgente, sia gli uomini che le donne, quest’ultime scoprendosi il volto ed il corpo al riparo di occhi indiscreti maschili, eseguivano le abluzioni lavandosi braccia, viso, mani e corpo. Un’abitudine questa che i nomadi appresero una volta convertiti all’Islam. Lo facevano ben cinque volte al giorno, se non erano impegnati in estenuanti battaglie. Prima i cavalieri e poi i soldati appiedati. In mancanza di acqua usavano la sabbia del deserto e alla mattina, a mezzogiorno, al pomeriggio e alla sera , srotolavano il tappeto che avevano sempre con sè, e coprendosi il capo con il mantello , rivolgendosi verso la mecca, pregavano il loro unico Dio: (الله) Allāh. L’orda di guerrieri dal volto e dal capo coperto da un lungo lembo di stoffa arrotolato , si scagliò all’improvviso con la scimitarra sguainata , comparendo dalle dune infuocate al galoppo di destrieri ma anche di cammelli, contro i vecchi e gli uomini colti di sorpresa. A coloro che si arresero fu risparmiata la vita. I più forti e robusti vennero presi in ostaggio come prigionieri,per essere poi o venduti come schiavi o inseriti nell'esercito. I vecchi e i malati furono invece uccisi all’istante. Alle donne fu riservato un trattamento diverso.



Al prossimo capitolo



Italo Surìs

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