mercoledì 12 dicembre 2007

sotto il fuoco amico

12 dicembre 2007

Un cartello diceva: la bandiera di quest’istituto è listata a lutto. Già ora si piangono i morti in silenzio, continuando a lavorare, sommessamente. Forse è un problema che non tocca più di tanto. Si sa nella vita si muore e la morte stessa, fa parte della vita. Si muore di malattia, di vecchiaia, d’incidenti, per le strade, ma negli anni tremila si muore vergognosamente sul lavoro. Vergognosamente e dignitosamente. Due parole che abbinate danno il senso della realtà quotidiana, vergogna per i responsabili dignità di coloro che sanno di rischiare la pelle per sopravvivere giornalmente.
Sì, la vita è questa, forse ce lo siamo dimenticati ma la stessa è, fatica e sudore, è pazzia e sofferenza, tutto, ma la morte no!, Essa, la donna vestita di nero, non può giungere stupidamente dagli alti forni di una fabbrica, con un nome tristemente famoso. Non si può pensare che esistano ancora manager e proprietari che parlano una lingua gutturale d’oltralpe, ricordata da pochi superstiti dell’ultima guerra con terrore, che si comportino cinicamente come gli attori dell’immane sciagura che coinvolse il mondo nel 45. A quanto pare, siamo ancora in guerra, pensavamo che fosse finita per sempre, ma si riaffaccia con alterigia e alternativamente, nelle vie di Algeri e nei moderni campi della Todt Italiana, nel souk di Bagdad e nelle case di Perugia.
Qual è stato il luogo di martirio degli ultimi combattenti?; le acciaierie fantasma di Torino, l’inferno metallurgico della città delle olimpiadi invernali, la città amministrata da un sindaco di sinistra. Un amministratore distratto da altre cose più importanti , da progetti faraonici, tanto che forse non si è accorto di quanto avessero bisogno del suo operato gli appartenenti ad una classe dimenticata; gli operai . Un altro tipo di gente, persone messe nelle condizioni di lasciare o perdere definitivamente in quel gioco d’azzardo che è diventato il lavoro.
Molti hanno abbandonato l’inferno del ferro in fusione. Le taglienti lame di acciaio, per loro sono forse ormai un triste ricordo. Qualcuno ha preferito il non lavoro sicuro ad un’altrettanto sicuro pericolo di non farcela, di non tornare più in famiglia. Altri, sostenuti dal bisogno e dalla disperazione, hanno continuato, stringendo i denti e incrociando le dita. Lo hanno fatto, nonostante la gabbia in cui erano costretti ad operare, fra fumi infernali e vapori Danteschi, si stringesse sempre più attorno ai loro corpi come un’anaconda impazzita e vorace. Un animale ferito, morente e delirante in cerca di vittime da immolare alla necessità della moderna imprenditoria, alle esigenze di una ’economia globale.
Una bestia impazzita, un mostro fremente che ha costantemente cercato di stritolare fra le sue spire, quelli che fino poco tempo addietro hanno rappresentato la sussistenza. Movimenti lenti e ambigui per costringere, altre potenziali vittime, a fuggire impaurite, a mollare, a lasciare la morte virtuale o scegliere quella reale. Un inferno al posto di un altro. Mi par di vedere i giovani operai alla mattina, alle prime luci dell’alba, fumarsi l’ultima sigaretta della giornata e inspirare a pieni polmoni nell’aria fresca e con il bavero del giaccone sollevato, il fumo piacevole della stessa. Una voluta di fumo paradossalmente salubre e rilassante, se confrontato a quell’altro, quello che sale dalle fiamme incandescenti delle vasche colme di micidiali misture, composti chimici necessari a temperare il materiale e a distruggere invece gli animi.
Già l’ultima sigaretta, un sospiro, uno sguardo alla luna che ammicca ancora nel cielo, tristemente, come sapesse già tutto, tutto quello che sanno anche loro; la fatica, il sudore, le imprecazioni, la stanchezza, ma soprattutto la paura. Quel triste presentimento che pervade il loro essere, il timore che possa essere l’ultimo giorno della loro esistenza. Ecco perché, prima di entrare nell’inferno dei vivi, avranno sicuramente guardato verso il cielo alla ricerca disperata del sorriso delle mogli e dei figli, un aiuto insperato che calasse dall’alto, uno sguardo benevolo e di speranza, che desse loro la forza di dirigersi verso i moderni forni crematori.
In fondo il tiranno chiamato capitale esige anch’esso i suoi caduti. Le regole del mercato, le sue vittime. la frenesia moderna , i suoi morti. Le ideologie i loro caduti. Solo le madri e le sorelle restano poi, quando i loro corpi si sono liquefatti nel magma incandescente, a piangere dolorosamente i propri cari con appuntata sul petto una medaglia, e stringendo nelle mani sottili, un rotolo di valuta pregiata da abbracciare sotto le coltri del letto nuziale nel freddo e nel silenzio della solitudine. Ma con il dolore avranno l l’onore d' essere la vedova di un combattente moderno, un metallurgico o un operaio edile, “deceduti in una modernissima città occidentale, cercando di contrastare valorosamente il fuoco nemico”.
Eppure tutto era prevedibile, oppure potrebbe addirittura essere stato messo in conto. In fondo alla fine si chiude, si sbaracca e la ditta disloca nei nuovi paesi emergenti, quelli asiatici o quelli indiani, dove la vita è pagata ancor meno, in cerca di nuovi eroi, forse anche più giovani. Contemporaneamente il governo Italiano sopperirà ai doveri e agli impegni di quello che fu “il vecchio e fedele alleato di un tempo” Heil!!.

Italo Suris



























































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